Serge Quadruppani

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Dall’altra parte della barricata

samedi 26 avril 2008, par Serge Quadruppani


Strana immagine in cui si ha l’impressione che siano i poliziotti che tengono la barricata. Di fatto, non è impossibile che, nel caratteristico balletto sessantottino tra celerini e rivoltosi che si ritirano o caricano, i poliziotti si siano ritrovati nella posizione di proteggersi dietro i mucchi di sanpietrini. Una cosa è certa : il fotografo era dalla parte dei barricadieri. La cosa colpisce (il verbo si impone, visto il contesto) tanto più che le immagini colte da professionisti piazzati dalla parte dei manifestanti che si confrontano con la polizia sono diventate una derrata rara. Oggi, nelle manifestazioni francesi, diventa difficile distinguere tra poliziotti che filmano e giornalisti pesantemente equipaggiati per proteggersi da aggressioni da parte di incontrollati. E’ vero che nel corso degli ultimi decenni, parecchie delle foto che i manifestanti avevano lasciato prendere senza reagire sono in seguito servite come prove per fermare dei presunti casseurs, ed è vero anche che, dalla fine del XX secolo, troppi commenti che accompagnano i reportages su alcuni luoghi di scontro brillano più per la ricerca del sensazionalismo che per volontà di oggettività. Di modo che l’enragé del XXI secolo tende piuttosto a dare la caccia al cacciatore d’immagini. In Francia, sarebbe ora che i giornalisti che rifiutano il ruolo di ausiliari della polizia si pongano seriamente la domanda di come interrompere il circolo vizioso che rinchiude irresistibilmente i media ufficiali, quelli che portano la fascia di riconoscimento, ad adottare il punto di vista del manganello. In Italia, per mancanza di esperienza diretta, non saprei dire se il problema si pone con la stessa gravità. (E devo riconoscere che a Genova, dove i rappresentanti della legge colpivano su chiunque, compresi vecchi e teen-agers, i giornalisti intravisti dovevano soprattutto guardarsi dai guardiani dell’ordine).

Quel che colpisce anche (decisamente…), è il salto tecnologico compiuto dai fabbricanti del materiale della polizia. In Saremo tutto, ampio e bell’affresco delle lotte dei dockers americani dagli anni trenta ai giorni nostri, Valerio Evangelisti ci offre una scena di amara buffoneria, in cui due rappresentanti di fabbricanti di attrezzi di sicurezza, precursori delle prospere società che hanno privatizzato la guerra in Irak e altrove, discutono dei rispettivi meriti dei loro materiali, l’uno assicurando che i suoi manganelli non hanno uguale per fracassare i crani comunisti, l’altro sostenendo che le sue granate asfissiano i sovversivi meglio. Dopo, passano alla pratica, direttamente in una manifestazione sul porto di Seattle. Mi sembra molto verosimile che delle esperienze di questo genere abbiano avuto luogo in vivo ai giorni nostri. Perché, come credere che il settore marketing di queste potenti società non abbia potuto organizzare delle dimostrazioni sul terreno ? Non si può altresì che ammirare le capacità delle loro forze-vendita. I loro impressionanti risultati con l’esportazione. Il più povero tra gli Stati del Terzo Mondo non esita un istante a regalarsi quei gambali, quei caschi imbottiti di materiali rari, quelle spalline zebrate, quegli scudi immensi e scuri che danno alle loro truppe di manganellatori l’aspetto di robocop. Anche a Haiti, la tenuta delle forze dell’ordine locali farebbe passare per barboni i CRS o i gardes mobiles che si vedono in questa foto. Or dunque, al compagno casseur che troverebbe un po’ ripetitivi gli assalti eroici contro gli edicolanti o abbastanza paradossale, in fondo, affaticarsi a gonfiare le cifre di affari delle vetrerie e degli assicuratori, si potrebbe consigliare di provare a reperire eventuali signori in cravatta in procinto di misurare l’effetto di nuove molecole soffocanti e di tonfa dal design inedito.

L’ultima frase del precedente paragrafo è evidentemente ironica – precisione assolutamente indispensabile con i tempi che corrono, sempre più ribelli allo spirito di provocazione, appena si esce dai percorsi segnalati della fogna « umoristica » televisiva. Dalla fine del decennio d’oro (fine anni 60 – fine anni 70) mentre il neo-liberalismo iniziava la sua ascesa trionfale, il progresso fulminante delle capacità di violenza dello Stato si è accompagnato a una delegittimazione massiccia di qualsiasi forma di violenza non-statale. Mentre qualsiasi protesta che non rispetti le leggi e i regolamenti è minacciata di essere raggruppata sotto il capitolo « violenze e inciviltà », le tecnologie di telesorveglianza e la presa delle impronte biologiche tendono, come dice Agamben, a trasformare tutto lo spazio pubblico in prigione panottica. E’ di fronte a questa doppia trappola che bisogna, più che mai, ripartire dal 68. Durante il maggio francese la violenza seppe autolimitarsi alla misura del necessario e del possibile, evitando così l’impasse in cui doveva ritrovarsi un po’ di tempo dopo una buona parte del movimento sociale italiano, che l’allucinazione della P38 permise di isolare dal resto della società per consegnarlo più agevolmente alla repressione. Perché il movimento del maggio seppe utilizzare la memoria vivente delle lotte del passato, con delle barricate insieme simboliche e reali, che incarnavano molto bene la creazione di spazi di libertà senza mai esser loro indispensabili, divenendo dall’indomani, una volta caduta la barricata, il luogo di creazione di un nuovo spazio di incontro.

Il 68 fu prima di tutto un’avventura della comunicazione. Fu il momento in cui, a ogni ora del giorno e della notte, si poteva abbordare per strada uno sconosciuto e discutere con lui di tutto (l’avvenire del mondo) e di niente (la riforma dell’università). Fu anche la riappropriazione dei muri della città da parte delle soggettività e per parecchi anni la cosa continuò nella metro, fino al ritorno della colonizzazione mercantile del nostro campo visivo. Al contrario della tag schizofrenica che rinchiude in una povera tribù, il graffiti esprimeva un ribollire in cui, come si vede ancora nelle assemblee di oggi, l’intelligenza spicca il volo su molte stupidaggini. In mezzo a tante scemenze, ingenuità e idiozie riformiste e staliniste, scaturirono alcuni slogan sui quali i decenni a venire avrebbero avuto da riflettere. Come il famoso « vietato vietare » che i mandarini psicanalizzati si affrettarono a dichiarare infantile, mentre questa formula contiene in forma stringata l’enigma da risolvere per le generazioni future : quello della creazione di una società dove la regola e il divieto non riposeranno né sulla loro integrazione passiva, né sulla coercizione pura. La poesia sovversiva che si espresse allora (succo di crani o frutto di buone letture), la creatività dei manifesti andava ben al di là della poltiglia dei volantini dei gruppuscoli. Segnando per molto tempo le sensibilità, il tentativo sessantottino d’autogestione della comunicazione sociale ha lasciato per i movimenti a venire la consapevolezza che la libera chiacchiera è un’arma, e che, per prendere coscienza della sua forza ed estendersi ad altri, ogni rottura deve dotarsi dei propri canali di comunicazione. La cosa più importante non era nella foto, ma davanti a essa : erano le persone che, dall’altra parte della barricata, si parlavano e sognavano insieme ad alta voce.

(Traduzione di Maruzza Loria)

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